La Guglia del frate
da la "brasa ... la spluvia", per gentile concessione

La giornata era fosca: su per il cielo scuro nuvoloni pregni di tempesta vagavano disordinatamente. In lontananza, il Monveso, la Roccia Azzurra apparivano attraverso uno strato di nebbia sottile come un velo,indice infallibile di pioggia. Ma noi eravamo partiti ugualmente, io e un montanaro; muscoli saldi, volontà forte, gioventù.
Si voleva salire alla Punta Tressi, poi per cresta toccare la Punta del Cavallo: impresa che ci avevano indicata meritevole di una qualche attenzione alpinistica.
I rombi dei tuoni si avvicinarono man mano, poi alcune gocce!
Salimmo ancora. «Più su c'è una balma - mi aveva detto il compagno - fra duecento metri; proprio al di sopra della roccia del Frate: vi faremo riparo».
La grandine ci colse prima che fossimo giunti. Fradici ci rifugiammo nella grotta, silenziosi. «Vede quello spuntone laggiù?». Protesi il corpo un poco fuori dalla balma: vidi un piccolo culmine che si staccava dai dirupi.
«La Guglia del Frate», proseguì: «E` restato là tra i monti, povero frate!»
Risi allegramente. «Un uomo? già! Una delle solite leggende».

«Se è una leggenda non lo so, ma so che quel poveretto ha potuto trovare finalmente la pace», rispose il compagno stizzito.
Tacqui un momento per lasciare tempo al suo animo di calmarsi, e poi con voce mansueta: «E come si svolse il fatto?».

Il compagno non rispose subito, poi cominciò la storia con un tono di voce svogliato, ma che andò man mano rinfrancandosi.

«C'era un giovane bravo, tanto bravo a Tressi in Val di Forzo. Suo padre era campanaro, perché allora c'era la Parrocchia a Forzo. C'era sempre stata, finché ci sono stati i "Fatineiri" su per la montagna, perché in questo vallone erano bravi, e invece a Ronco, cattivi e i preti non volevano che i giganti prepotenti si famigliarizzassero con noi. Ma quel giovane era proprio troppo buono, e poi studiava, sa, come studiavano allora: non sui libri, ma su delle carte vecchie come ce ne sono ancora oggi in Comune.
Le ragazze non erano per lui; aveva detto che non voleva ammogliarsi e non usciva mai se non per recarsi al lavoro o alla Chiesa. Finché un giorno il Parroco lo chiamò: « Di, vuoi farti frate? Ho ottenuto un posto in convento. Ci vuoi andare?». Lui, santo com'era, disse di sì, ma veramente gli rincresceva di lasciare i monti: nella notte precedente volle stare alla finestra, al chiaro di luna, e guardare la Torre Lavina che spiccava nel cielo azzurro cupo per le ombre in un fantastico altorilievo.
Al mattino aveva gli occhi umidi di pianto. Partì, ma, salutando i parenti, non riuscì a pronunciare una parola.

Arrivò al convento nella piana grande, verdeggiante, e gli parve di essere sperduto! Non mormorio d'acqua, non tramonti superbi di sole: alberi alti, profumo di resina e di genziana. E, solitario, pianse.
Cominciò gli studi con fervore, ma il suo animo andava sempre più intristendosi: aveva nell'ossa un indeterminato malessere: vedeva le montagne laggiù, come una striscia d'ombra, e un nostalgico desiderio lo stringeva, lo dominava.
Nella notte, salmodiando nella chiesetta gotica, c'era un pianto strano nella voce, e gli altri frati non riuscivano a capirlo. Solo il Padre Guardiano se ne accorse: "Che c'è? Non è vita per te questa?"
Lui parlò delle sue montagne, del suo paesello, dei suoi boschi, dei suoi pascoli.
Il Superiore lo ascoltò: « Figlio, è tentazione! Andrai in un altro convento più lontano. Non vedrai più le Alpi».
Il giovane chinò il capo e il giorno dopo partì solo con la bisaccia in spalla, il saio unto e le scarpe logore ai piedi. La nuova dimora era peggiore della prima: il caldo opprimente; non piante, non erba, seminati soltanto di grano, di mais, tutt'attorno. A perdita d'occhio una piana sconfinata.
Continuò i suoi studi, ma continuò a deperire. Non vedeva più i monti, ma colto da un'irresistibile nostalgia piangeva: e lo spirito si ribellava a quella dura vita tra quattro mura bianche, infuocate dal sole canicolare.
Gli fecero compiere gli studi, poi lo lasciarono partire per un anno perché ritornasse a Forzo e convertisse i "Fatineire": poi lo avrebbero aspettato ancora.
Il suo viso si illuminò di gioia quando rivide i suoi monti; e quando il suo piede cominciò a salire, un inno di fede uscì dalle sue labbra arse e sfinite, e il corpo emaciato ebbe un nuovo impeto di vigore. Rivide il suo paesello, senti' le campane della sua Chiesa risquillare e il suono allargarsi tra i valloni e ripercuotersi festoso fra le rupi. Bevve l'aria delle forre e dalla sua gioia uscivano insegnamenti per i compaesani e divenne l'apostolo, il consolatore, l'angelo di tutti. I "Fatineire" però non si lasciarono avvicinare. Non riuscì a convertirli. Erano troppo neri, troppo forti per ascoltare le sue parole. Il frate era abbattuto per la delusione, e l'anno stava per terminare.
Prima di partire decise di tentare ancora una prova, e per ottenere la grazia volle ritirarsi sul monte qualche giorno a pregare, solitario.
Venne in una balma, là sotto. C'era lui solo. Dal paese non osavano salire per non disturbarlo. Il terzo giorno un tempo orribile sconvolse la montagna. A Forzo tutti rinchiusi nelle case tremavano udendo i rombi e gli scrosci dei macigni rotolanti per i valloni di Lavina. Al mattino seguente, quando ad Arcando si svegliarono e volsero gli sguardi verso le rocce che dominano il paese (il tempo si era fatto bello, terso e arioso), videro lassù una figura come di frate: un busto gigantesco. In breve tutti seppero del prodigio. Salirono. La balma non c'era più: su di essa c'era un picco: quello là, lo vede, il Frate.

Così è restato fra i monti e non ha pianto più».
La bufera scatenata si era andata man mano calmando e parve smorzarsi con le parole commosse del montanaro che sporse il capo fuori dalla balma, scrutò in giro. Poi udii la sua voce festosa: « Guardi laggiù, vicino al la cresta: c'è il sereno! Un raggio di sole, un raggio di sole, signorino!».


A.Caligaris P.Balma

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